Ott 30 2007

Estratto dal testo “I nuovi territori della dispersione insediativa. Il caso del corridoio del Campidano in Sardegna” a cura di Marco Piras

Filed under: Il territorio dell'architettura

Aspetti del mutamento dell’attuale condizione urbana.

Una stagione di studi. E ora?

La dispersione insediativa tra studio e applicazione

E’ da tempo che si sente parlare di dispersione insediativa e urban sprawl per quanto riguarda il territorio italiano. Già negli anni ’60, con gli studi sulla città-regione per il territorio milanese si cercava di dare una nuova dimensione alla città che si spalma e si disperde nel territorio. Si cercava di distinguere l’unità amministrativa delle città dalla popolazione agglomerata e da quella sparsa. L’agglomerato urbano attuale supera, infatti, nella maggior parte dei casi, i limiti amministrativi, e non risponde più a criteri semplici come la contiguità e la densità. Tutto ciò è dovuto ad una forte espansione delle periferie, all’inglobamento delle città satelliti e a quel insediamento sparso intermedio che gli americani chiamano rural non farm. Non è più possibile trovarsi d’accordo su che cosa possa essere considerato città. Ormai numerose città si estendono per chilometri inglobando zone con differenti caratteristiche morfologiche e funzionali. La città è dovunque e in ogni cosa1. L’urbano è come una catena di agglomerati collegati fra loro da corridoi di comunicazione.

La difficoltà non sta solo nella definizione di ciò che è urbano ma anche, viceversa, nella definizione del non urbano. Si è cercato di dare una disciplina alle pratiche urbane ma le città hanno sempre superato il loro involucro disciplinare. Anche in Italia, negli anni ’60 si cerca di stabilire programmi di riequilibrio del territorio e della città che, partendo da trasformazioni in atto, mettessero a punto una nuova organizzazione spaziale del territorio nel suo complesso2, distaccandosi da una visione più fisica e determinata della città3. Studi ancora attuali e non conclusi. Ci troviamo oggi – quindi - in una fase di transizione della città europea, dove si richiede una ridefinizione delle identità e del ruolo dell’intero sistema urbano europeo all’interno di un’economia sempre più globalizzata. Le dinamiche che stanno investendo e trasformando l’immagine e la struttura morfologica del territorio urbano derivano quindi da alcune condizioni, tra cui il rapporto tra territorio e situazione dell’urbanizzato e il ruolo che l’infrastrutturazione di esso ha nelle dinamiche di espansione di un territorio urbanizzato, sempre più densamente abitato. Tutto ciò sembra aver messo in difficoltà Architettura e Urbanistica che sono chiamate a ripensare ad una loro trasformazione che collochi nuovi soggetti e attori tra gli stakeholder della loro attività

Si vuole qui dare spazio a tali discussioni.

Questa parte della tesi vuole trattare proprio questo tema cercando di ripercorrere gli studi fatti fino ad oggi e dandone una lettura critica di essi e cercando di arrivare a restituire una visione applicativa e suggerimenti personali al problema. Intendo strutturare questa parte in tre fasi: la prima che si occupa del carattere della città, riferendosi alle mutazioni di carattere della città europea enunciate da G. De Carlo in “Tortuosità”; una seconda di lettura, in cui ripercorrerò gli studi fatti sul tema (fino ad oggi), usufruendo della divisione in famiglie dettata da C. Bianchetti in “Abitare la città contemporanea”; ed una terza parte di scrittura, dove analizzerò alcune strategie risolutive del problema come quella di A. Branzi e S. Boeri ritrovabili in “L’urbanistica dell’indeterminatezza”. Sono consapevole del fatto che tenere insieme tre fili logici distinti

- di cui due, trattando la dispersione insediativa, si collocano in un sottoinsieme di un discorso sociologico-urbanistico sulla città contemporanea più generale, trattatati dal primo libra, quello di De Carlo – non sarà semplice.

Il carattere della città

La città contemporanea caratterizzata da un mutato stile di vita aveva preso strada e molti architetti si interrogavano sul tema per capire quale fosse il nuovo carattere della “nuova città”. Il problema della dispersione nasce quando ci si accorge, alla fine degli anni 80, grazie alla cartografia satellitare, delle trasformazioni, (passate e in atto), che fino a quel momento sfuggivano all’occhio sia per vastità di spazio che per vastità del tempo (delle trasformazioni stesse)4. Certo, si era già notato un certo “strangolamento” delle città, ma non se ne conosceva la natura. <<[…] una trasformazione del paesaggio che non potevamo non vedere, ma che non riuscivamo a riconoscere, a nominare.>>, <<casa potevamo vedere oltre i molti confini della città, […]ci aspettavamo la campagna. […] Invece, l’inizio dell’attesa campagna, la fine della città, arrivava sempre più tardi, o il confine era sempre meno nitido.>>5. Dopo gli architetti e i geografi, si interessarono a questa stagione di studi anche gli economisti e i sociologi che denunciavano a fronte di un cambiamento dello stile di vita delle persone, l’incapacità della città moderna di soddisfarlo, non è infatti possibile nel vecchio modello urbano esaltare l’individualità,-caratteristica fondamentale del moderno way of life. Tra gli architetti che hanno tentato di fare chiarezza sul nuovo carattere della città che si stava prefigurando vi è senz’altro Giancarlo De Carlo, il quale rileva all’interno dello scenario di trasformazione della città contemporanea l’existenz minimum e lo zoning di essere: due concetti regressivi attuati dall’urbanistica portatrici di una concezione troppo economicista dello sviluppo urbano. Il testo tratta l’argomento della città contemporanea letto da una angolazione molto generale ed allargata che comprende (può essere letta da) vari punti di vista: urbanistico, storico, ma non solo. L’aspetto che a me interessa è proprio il primo e parte da una lettura del carattere della città contemporanea, dal mutamento degli stili di vita che gli sono propri e che trova una risposta, secondo l’autore, nella città mediterranea. Città mediterranea quindi, come soluzione a questa perdita o mutazione di carattere, in quanto la complessità, generata dalla tortuosità, in cui tutto ciò che è certo in termini geometrici diventa incerto in termini di spazio urbano possa dare nuovo vigore alla città contemporanea6.

La lettura

Il paesaggio che quindi, si riscontra nelle città contemporanea è un agglomerato di singoli episodi generati da attori differenti senza un obiettivo comune che portano al territorio senza qualità di Cristina Bianchetti. In questo nuovo scenario di dispersione si iniziano quindi ad attivare programmi di ricerca che ne studiano le dinamiche insediative e provano a dare una risposta e una regolamentazione. Numerose sono state le idee di approccio al problema e Cristina Bianchetti prova a suddividerle in famiglie associate per analogia del fenomeno. Credo che questo sia stato un tentativo di riordino delle idee, un “tirare le somme” degli studi fatti fino a quel momento sul quale vorrei tentare di dare una mia personale lettura e una mia idea del fenomeno collocandomi in una o in più parti di queste. Cristina Bianchetti suddivide le famiglie di ricerca in quattro grandi gruppi, la tradizione neoriformista, quella elementarista, la neocomunitaria e quella tra neofenomenologia e postmoderno, io credo invece che vi sia anche una quinta famiglia che non accettando di perdere l’idea di città moderna cerca di riportare il tutto a schemi già consolidati. In realtà credo anche, trovandomi in accordo con quanto detto da C. Bianchetti, che la divisione sia molto più complicata e credo che vi siano interazioni e analogie tra esse e che quindi non si possano individuare degli insiemi chiusi, anzi credo che questi si compenetrino tra loro dando vita a più famiglie ibride. Utilizzando la stessa divisione7, la prima famiglia è quella della tradizione neoriformista che vede la dispersione insediativa come un uso capitalistico del territorio che spreca suolo, risorse e energia e che tratta quindi la città non solamente come entità fisica ma anche come entità sociale. Credo che in questa famiglia vi siano dei forti legami anche con gli studi sul clima8 che mettono l’accento sul tema del consumo delle risorse dandone un’immagine pessimistica e catastrofica. I neoriformisti trovano il rimedio nella densificazione e nel ricompattamento dei filamenti di città ridando una forma conclusa ad essa.

Tra essi, anche la teoria più razionale espressa da Francesco Indovina che vede la dispersione come un esplicitarsi di nuove forme individuali dell’abitare che generano una forma differente di organizzazione dello spazio rispetto ai modelli della città moderna. Forma che va a formarsi come una rete di piccoli e medi tessuti consolidati che vanno a saldarsi tra loro con un’edilizia a bassa densità e grandi aree a servizi in un modello di policentrismo reticolare che si colloca più nella definizione di campagna che di città. Credo di non potermi collocare in questa famiglia in quanto ritengo che la soluzione al problema non sia nel riproporre lo schema consolidato di città moderna, anzi credo che vi sia il bisogno di lavorare e trovare un nuovo schema di città contemporanea che assolva le richieste dei nuovi stili di vita. Nonostante trovi un punto di accordo secondo la prima accezione riguardante l’urbanizzazione debole dei nuovi spazi interstiziali. Credo infatti che al giorno d’oggi non ci si possa permettere di perdere delle risorse creando tessuti forti difficilmente convertibili in un periodo in cui i cambiamenti sono così rapidi e repentini. La seconda famiglia individuata da Cristina Bianchetti e quella della tradizione elementarista che vede la dispersione come una risposta individuale al problema dell’abitare e del produrre, andando a formare una sommatoria di singole soluzioni a singoli problemi ma che non avendo un fine comune generano problemi di coesione a macroscala rendendo sempre più confusa e illeggibile la città contemporanea.

Con queste premesse gli elementaristi accettano la dispersione insediativa ma cercano, studiando i tessuti della dispersione, con

l’ausilio del materiale cartografico, di creare dei nuovi set di regole formali e modelli per costruire il progetto e dare nuovamente delle regole alla città contemporanea pur consapevoli di non poter arrivare ad avere un mondo perfetto. A questo punto credo di dover intervenire e dire ciò che penso a riguardo di questa famiglia in quanto mi trovo d’accordo sulla creazione di “cataloghi d’intervento” caso per caso, pur trovando in questo un operazione titanica che probabilmente troverà sempre nuove situazioni della dispersione e quindi nuove integrazioni ai set. Credo in fatti che la città diffusa possa trovare una soluzione cercando le giuste calibrazioni che le diano dignità. Penso anche che non si possa parlare di perfezioni in un mondo in cui gli interessi economici vanno a scavalcare ciò che è immagine ed estetica. Questo scenario è tanto più profondo quando si va a valutare il ritorno all’individuo e la presa di distanza reciproca tra essi in un’esaltazione dell’individualismo che ritroveremo più avanti in un’altra famiglia ma con differenti argomentazioni a riguardo. Bernardo Secchi cerca di portare fuori da questa focalizzazione sull’individuo le indagini, riportando la discussione sul piano territoriale e specifico delle situazioni indagate perché per lui non è corretto ricondurre la discussione a questo rinascente individualismo. Egli cerca piuttosto di ricercare nel sapere tecnico, a cui ci si affidava già negli anni ’60-’70, una via d’uscita. La terza famiglia è quella della tradizione neocomunitaria che a mio parere si avvicina, almeno per quanto riguarda i soggetti d’indagine, alla prima famiglia, in quanto inquadra il problema come sociologico focalizzando l’attenzione sulla comunità.

 

Anche questa famiglia vede la dispersione come un male che rompe i modelli sociali di carattere comunitario che a loro parere possono essere gli strumenti leva per un nuovo sviluppo. Questo soprattutto perché come nella prima anche i neocomunitari non separano l’aspetto sociale dal territorio considerando l’intero milieu visto come esito di interazione tra l’uomo-comunità e il territorio. A questa famiglia si associano i geografi che credono che la soluzione sia nel trovare nuove forme di governance del territorio in grado di ristabilire questa solidarietà tra comunità e ambiente. La tradizione neocomunitaria mi trova d’accordo su alcuni punti come quelli che riguardano le nuove forme di governo del territorio, in quanto credo che essendo cambiata la forma della città ed essendo passata da un modello compatto ad un modello diffuso anche gli strumenti di tale governo debbano seguire questo cambiamento assecondandolo; ma non sono affatto d’accordo sulla questione della rottura del legame tra uomo e territorio, credo invece che questo individualismo, in alcuni casi, continui a dialogare con il territorio in maniera più forte di prima generando nuove relazioni. L’ultimo gruppo che Cristina Bianchetti individua è che si situa tra neofenomenologia e postmoderno, di cui fanno parte le ricerche milanesi sulla dispersione9. Queste famiglie sono dell’idea che il territorio vada guardato da più punti di vista, non solo più quello zenitale a cui siamo abituati, ma anche livelli di vista più bassi fino ad arrivare al punto di vista del city-user.

 

Questa famiglia fa ricorso a classificazioni dei fattori della trasformazione cercando di catalogare le dinamiche in repertori sistematici di spazi e principi. Credo che questo sia un modo intelligente di studiare il fenomeno, in vista, come dicevo prima, di nuovi casi di dispersione insediativa; ma credo che ad ogni tipologia di dinamica si debba studiare una tipologia di azione, cosa che non è ancora avvenuta, pur rendendomi conto dell’enorme difficoltà di stabilire in maniera univoca di che dinamica si tratti. Un’altra caratteristica di queste famiglie che mi trova pienamente d’accordo è la non distinzione tra ciò che è dispersione è ciò che è città contemporanea. Credo che ormai i due termini coincidano e che sia impossibile tracciare una linea fisica tra città compatta e città diffusa, credo infatti che questo sia il vero problema delle ricerche in atto, stabilire dove finisce un sistema e dove ne inizia un altro. Il fattore che più mi trova d’accordo con il gruppo dei postmoderni sta nella ricerca all’interno di questa situazione di elementi positivi che possano ridare vigore alla città. E credo anche che questa debba essere fatto variando il punto di vista e andando a ridisegnare la città da un punto di vista molto più basso, come quello del city-user e non più con lo sguardo zenitale a cui ci ha abituato l’urbanistica moderna, sguardo che considero non veritiero e non rappresentante della realtà, sguardo che rappresento un formalismo planimetrico fine a se stesso non percettibile da chi realmente vive quello spazio.

 

 

La scrittura

Numerosi sono anche stati i tentativi pratici oltre che teorici di approccio al problema. Approcci di differenti nature e collocabili nelle diverse famiglie elencate nella precedente sezione riguardante la lettura. Tra questi citerei i progetti redatti da Branzi e da Boeri10. Essi hanno partecipato attivamente alla stagione di studi, e hanno constatato che una <<democrazia diffusa e debole, sempre più demos e anche senza kratòs appartiene a questa nuova epoca di sperimentazione permanente e di incertezza stabile, continuamente impegnata a ricercare equilibri provvisori pur di evitare soluzioni definitive>>11. Loro ritengono che vi sia stato un cambiamento dei riferimenti dell’urbanistica: quindi una perdita di centralità dell’industria - che aveva costituito il modello di riferimento per la città del XX secolo generando una serie di architetture irreversibili, a favore di altre logiche produttive basate su tecnologie più deboli12 individuate nell’agricoltura, intesa “Agricoltura” come universo capace di adattarsi a programmi reversibili ecocompatibili. Tali teorie trovano applicazione nei due progetti per Eindhoven e Rotterdam dove in entrambi i casi vi è una ricerca di un atteggiamento non deterministico che inventa sistemi di regolazione debole capaci di gestire l’imprevisto e la reversibilità dei processi.

Concordo con questa ipotesi che trova fondamento nella crisi delle aree ex industriali all’interno della città compatta e nella sopravvivenza di un valido modello agricolo nella dispersione insediativa. Penso infatti, che questo modello possa dare delle regole alla dispersione insediativa che credo essere più vicina alla campagna che alla città, pur non trovando un limite fisico riconoscibile tra le due entità.

 

Conclusioni

Cercherò ora di riordinare i pensieri già enunciati durante la stesura di questa prima parte cercando di restituire la mia idea riguardo alla dispersione insediativa e le ricerche fatte. Cristina Bianchetti termina il suo discorso sulla dispersione insediativa considerandolo esaurito e chiarificando il passaggio tra una stagione di studi sulla dispersione ad una stagione di studi sul paesaggio. Credo che questo non sia del tutto vero, penso infatti che oggi si senta ancora parlare di dispersione e che anche gli studi sul paesaggio ne facciano parte essendo strettamente legati. Credo di interpretare correttamente il pensiero di C.Bianchetti sostenendo che la chiusura, e lo studio sull’urbanità, allargata al territorio, stia coincidendo oggi con un rinnovato interesse per il paesaggio, ma che ciò venga utilizzato in modo poco rigoroso da alcune teorie, per esempio dai neofenomenologia, e in maniera più condivisibile dalla tradizione elementarista, che grazie allo strumento cartografico, circoscriva in moto più deterministico l’oggetto di studio.

Credo inoltre che le ricerche e gli studi fatti fino ad ora debbano trovare un’applicazione nei contesti in cui la dispersione non ha ancora influito sull’ambiente, come ad esempio il caso della Sardegna che mi trovo a studiare come caso di tesi e dove credo di aver individuato scenari di dispersione sui quali sia ancora possibile intervenire per dare al territorio una qualità urbana che faccia tesoro degli errori già commessi e consenta insediamenti rispettosi dell’ambiente e della qualità di vita. Credo che ora sia il momento di trovare una strada, da tutti riconosciuta, che detti le regole per una nuova gestione delle trasformazioni della città contemporanea.

 

 

 

1 Da Amin A, Thrift N, Città. Ripensare la dimensione urbana, Il Mulino, Bologna, 2005. Il testo ripercorre gli studi fatti in ambito europeo sulla definizione di città contemporanea.

2 Nel PIM (Piano Intercomunale Milanese) coordinato da G. De Carlo agli inizi degli anni ’60 il concetto di “città-regione” è inteso come “un organismo che non ha bisogno di limiti, perché rende possibile ad ognuno la scelta momento per momento, esigenza per esigenza, dei limiti opportuni”; e il territorio è visto come un organizzazione spaziale non gerarchica. De Carlo individua dei punti della rete che distribuisce e ordina in tre “stati territoriali” distinti: a) Milano e la fascia; b) i poli principali; c) il corpo galattico. Questi stati sono delle formazioni urbane consolidate o non ancora definite, che stabiliscono relazioni tra loro e altri materiali del territorio e della città senza generare gerarchie.

3 G. De Finetti suddivide la regione milanese in quattro quadranti per i quali avanza una serie di proposte progettuali con l’intento di definire una nuova concezione del polo milanese come una “città radiocentrica” aperta e flessibile.

4 A. Corboz individua due possibili visioni del territorio: la mappa e il paesaggio naturale da contemplare. La prima di queste è una visione scientifica che vede il territorio come un oggetto a disposizione dell’umanità per impadronirsi del soggetto, conoscerlo e poi agire. Aggiunge che la mappa restituisce l’insolita visione verticale d’insieme che non è resa possibile da una visione orizzontale. Da A. Corboz, Il territorio come palinsesto, 1983 in P. Vigano a cura di, Andrè Corboz. Ordine Sparso. Saggi sull’arte, il metodo, la città e il territorio, Franco Angeli, Milano, 1998.

5 Da A. De Rossi, G. Durbiano, F. Governa, L. Reinerio, M. Robiglio, a cura di, Linee nel paesaggio. Esplorazioni nei territori della trasformazione, Utet, Torino, 1999.

6 G. De Carlo porta l’esempio di Barcellona che a suo avviso, in seguito a una grande stagione di sperimentazioni sulla città che l’hanno portata ad essere sede delle Olimpiadi, si sia piegata ai luoghi comuni che generano la città contemporanea perdendo il suo fascino di tortuosità, complessità, imprevedibilità e mediterraneità.

7 Intendo la divisione in famiglie ereditata da C. Bianchetti, Abitare la città contemporanea, Skira, Milano, 2003.

8 Come ad esempio Luca Mercalli che nel suo libro Mercalli L, Sasso C, Le mucche non mangiano cemento. Viaggio tra gli ultimi pastori di Valsusa e l’avanzata del calcestruzzo, SMS, Torino, 2004; fa un quadro della situazione dello spreco di risorsi riguardante la Valsusa in seguito anche all’inizio dei lavori per le strutture olimpiche.

9 Boeri S, Lanzani A, Marini E, Il territorio che cambia. Ambienti paesaggi e immagini della regione milanese, Abitare Se gesta Cataloghi, Milano, 1993.

10 Mi riferisco ai progetti di No-Stop City di Archizoom di Andrea Branzi teorizzata nelperiodo 1969-72, al più recente Agronica di Eindhoven sempre di Branzi del 1994 e al piano per Filament City a Hoeksche Waard a Sud di Rotterdam del 1999 di Stefano Boeri. Riferimento in Branzi A, Boeri S, L’urbanistica dell’indeterminatezza, in “Lotus”n°107, 2000.

11 Da Branzi A, Boeri S, L’urbanistica dell’indeterminatezza, in “Lotus” n°107, 2000.

12 Intendendo le trasformazioni costruite mediante tecnologie che permettano un ritornoallo stato originario o comunque una grande flessibilità in tempi ristretti.